Autrice: Valeria Marmaglio
Sito: amegliocchiblog.wordpress.com
Ai tempi della frequentazione dell’Accademia d’Arte conobbi Sophie Calle. Non personalmente, certo, ma il suo lavoro mi colpì molto perché in qualche modo sentivo che qualcosa del suo sentire apparteneva anche a me.
Erano gli anni in cui a scuola pensavo a progetti come riempire l’atrio del mio palazzo di casa, asettico, di erba sintetica e piante per renderlo più ospitale e invogliare la gente a fermarsi e comunicare come fosse in un parco o la decisione di utilizzare oggetti, come forchette o vasi, in modo diverso dalla funzione a cui normalmente erano associati, obbligando così mia madre a legarsi i capelli con le forchette e altre cose di questo genere testimoniando il tutto con delle foto orribili. Erano gli anni in cui gli artisti che creavano qualcosa che influenzasse il territorio, l’ambiente in cui vivevano o la propria vita, mi affascinava moltissimo. Ed eccola lì, come una bomba, piombarmi tra capo e collo Sophie Calle, una persona la cui vita si è incrociata con l’arte a tal punto da prendervene parte o diventarne l’essenza stessa.
Sophie Calle è un artista francese nata a Parigi il 9 ottobre 1953. Il filo che lega i suoi lavori alla sua vita è talmente sottile da diventare, a volte, impercettibile. Il primo lavoro che la inserisce nel mondo dell’arte è LES DORMEURS (1979): Sophie invita 29 persone, tra amici e sconosciuti, a dormire nel suo letto, una dopo l’altra, per otto ore consecutive, scattando foto mentre dormono. « Volevo che il mio letto venisse occupato 24 ore su ventiquattro, come quelle fabbriche dove la chiave non finisce mai sotto la porta. Così ho chiesto alla gente di darsi il cambio ogni otto ore per otto giorni. Ho scattato una foto ogni ora. Ho osservato i miei ospiti mentre dormivano. […] Una delle persone che ho invitato a dormire nel mio letto e che avevo incontrato per la strada, era la compagna di un critico d’arte. Tornata a casa, ha raccontato al marito che aveva dormito per otto ore nel mio letto e lui ha voluto capire di cosa si trattasse. È così che sono diventata un’ artista. » La donna in questione era la moglie del gallerista Berna Lamarche-Vadel, che invitò Sophie a partecipare alla Biennale di Parigi nel 1980.
Sophie ama mettersi in scena, legandosi inevitabilmente al suo operato. Nel decennio seguente realizza opere di forte impronta autobiografica e dalla spiccata attitudine voyeuristica. Per L’HOTEl (1981) Sophie si fa assumere in un albergo veneziano come cameriera avendo così l’opportunità di fotografare le stanze dei clienti che le sono affidate con l’intento di cogliere gli aspetti più intimi della loro esistenza. Sophie fotografa le lettere, gli oggetti, i contenuti delle borse. Il risultato è un catalogo che sta a metà tra un criminologo sulla scena del crimine e gli scatti di una spia e che contribuisce a tratteggiare personalità ed esistenze di persone anonime, ma che sentiamo vicine e finiscono per somigliarci molto.
Per il progetto LA FILATURE (1981) Sophie assume un detective che la pedini e la fotografi senza farsi scoprire. Parallelamente Sophie tiene un diario e scatta fotografie di quello che le accade creando un dialogo tra la sua vita vista dall’esterno e quella descritta dall’intento autobiografico. Diventa così attore, autore, soggetto fotografato, investigatore di se stesso e oggetto d’indagine. Un enorme gioco di specchi, applicato a se stessa e alla propria vita.
Nel 2007 le viene assegnato il ruolo di rappresentante della Francia nel padiglione francese alla 52° Biennale D’arte Contemporanea di Venezia. Sophie partecipa con l’opera PRENEZ SOIN DE VOUS (prenditi cura di te) che ha suscitato un forte impatto emotivo e che ho avuto la fortuna di vedere. Si tratta di un insieme di fotografie, video, installazioni e testi con voci di 107 donne che sono state invitate a leggere la lettera del fidanzato che lasciava Sophie. Un messaggio d’addio letto e interpretato da tante donne, tra cui ricordo Luciana Littizzetto, con i loro volti e le loro parole, con senso di complicità e soddisfazione. In uno spazio buio sono proiettati contemporaneamente due video che ritraggono due ballerine, una indiana e una occidentale, che esprimono con i movimenti i loro sentimenti per la fine di un amore.
Le opere di Sophie indagano il limite tra la sfera pubblica e la sfera privata, tra la figura del voyeur e quella dell’esibizionista, innescando a volte perplessità sul tema della privacy. Sophie lascia che lo spettatore entri nella sua dimensione intima e privata, specchio di una dimensione universale, alla quale ci sentiamo appartenere tutti.
Per quanto potessi trovare eccessivi alcuni suoi lavori, trovai affascinante il fatto di legarsi così all’arte e meravigliosa questa libertà di poter esprimere la curiosità per il vissuto degli altri come appartenenza, ognuno nel proprio modo, a qualcosa di più grande.
Non nascondo poi che ai tempi una delle mie curiosità, messa per iscritto all’epoca, era quella di sapere dove andavano le altre persone, magari mentre ero seduta sull’autobus, e pensare di scendere al posto loro e trasformarmi in loro e vedere dove sarei finita, se dal dentista o a casa di qualche sconosciuto. Scoprii che Sophie aveva fatto un lavoro simile, seguendo dei passanti per strada a Parigi con lo scopo di riscoprire la città attraverso i loro percorsi, esagerando, se vogliamo vedere, nel seguire un uomo nei suoi spostamenti tra Parigi e Venezia, ma come non potevo non amarla?